sabato 16 ottobre 2010

VAL DI SUSA - Racconto d'altri tempi

  “RADICI”
         Racconto d’altri tempi e non solo


Foto: arch. famiglia Gioberto e arch. Montagnard
Testo: Lionello Gioberto


Qualche tempo fa ci è giunto in redazione un bel racconto scritto da Lionello Gioberto, stimato sindaco di Vaie nonché da tempo lettore di Montagnard. E’ ambientato al principio degli anni ’70, in una piccolissima frazione che si chiama Borgata Mura, raggiungibile da Vaie, Sant'antonino e dal Colle Braida (Valgioie - Sacra di San Michele).
Si tratta di un ritratto struggente della vita montanara e contadina dell’epoca. Uno spaccato ricco di grande sensibilità ed amore per la propria terra. L’anima dell’autore emerge con straordinaria  limpidezza.
Il racconto è corposo, ma merita davvero di essere letto con calma e per intero...


La 600 bianca sferragliava ansimando lungo la ripida strada sterrata che saliva il costone della montagna. Sette chilometri di pista sconnessa da fare tutti in prima, saltando di pietra in pietra come un camoscio carrozzato FIAT. Tutto traballava: sì che erano utili le maniglie per reggersi alla carrozzeria! La leva del cambio si agitava in un ballo tutto suo, con la mano libera dalla maniglia si accudivano i bagagli sistemati sul sedile di dietro e tra le ginocchia, il rumore costipato della prima marcia prendeva il ritmo delle buche e il suo ronzio sincopato veniva ogni tanto sovrastato dai colpi di clacson che papà faceva muggire prima di affrontare i tornanti e le curve cieche. Mezz’ora di polveroso (o fangoso, che è peggio) travaglio per arrivare su dove finiscono i castagni, la montagna spiana e la strada finisce. Dove c’è la casa dei miei Nonni.


La storica 600

Anche la quinta elementare era finita, eravamo tutti contenti e, in attesa che arrivassero i libri delle medie da sbirciare, mi godevo l’assenza dei compiti delle vacanze. Meglio che mai se era il momento di stare un po’ su dai genitori del papà. I Nonni si chiamavano Renato e ‘Mabilina’ (il vero nome Amabile l’ho saputo solo da adulto). Stavano in montagna da Pasqua ai Santi a fare burro e formaggi in compagnia di 2 mucche, una manza, 6 galline, 10 conigli e qualcuno dei nipoti che tra giugno e settembre veniva mandato a razzolare appresso ai bovini.
Anche se eravamo all’inizio degli anni ’70 l’estate dei Nonni sapeva ancora di dopoguerra. E’ vero che c’era la pensione, ma il nonno ogni tanto sottolineava con orgoglio che quello che guadagnavano con “lait, tume e bur” (integrato da un orto generoso) era sufficiente a mantenere per tutto il periodo i due vecchietti e i nipoti monticati. Non l’ho mai sentito dire da altri, ma per nonno Renato “… lo Stato me ne dà fin troppi di soldi…”. Non era vero, le pensioni erano miserrime, solo un regime di vita ultrasupermoderato e una gran voglia di spaccarsi ancora la schiena, potevano portare a questo fantastico risultato. Certo lassù le spese erano poche. L’acquedotto era degli abitanti della Borgata, la corrente a 220 volt non c’era e ci si illuminava con un sistema turbina–batteria che produceva 24 volt con l’acqua della fontana. Niente TV, niente elettrodomestici, riscaldamento con stufa a legna. Unici lussi: una radio a pile (per la quale i nonni pagavano regolarmente il canone RAI) e un “baracchino”, ovvero una radiotrasmittente con la quale si tenevano in contatto con una dozzina di amici, sentendosi ad orari prefissati tutti i giorni (come facciamo oggi con il telefonino, con la differenza che quel sistema, una volta acquistato, non costava più niente).

La famiglia di Casa Mura


Il posto è bellissimo ancora oggi. Bello come una pubblicità del Trentino. Sul crinale della montagna, in mezzo ai pascoli circondati da faggi, un grosso cortile con tutte le case che vi si affacciano. Sul lato verso la Valle di Susa (è di lì che arriva il vento) tutte le case sono unite in un fronte unico, gli altri tre lati sono invece delimitati da abitazioni separate. L’unico edificio che non si affaccia sul cortile è la piccola chiesetta. L’hanno costruita per ultima e non c’era più posto fronte–cortile. La Vista è quella di una foto panoramica e non è come quei posti dove all’ora di pranzo arriva il nebbione dell’umido. L’aria che frizza è costante e il tramonto arriva quando tutti sono già all’ombra da un pezzo. Quasi in tutte le case c’era qualcuno. Tra questi “Ninu” un vero allevatore che aveva almeno una quindicina di mucche, un toro e anche qualche capra. Gli altri abitanti erano due o tre coppie di pensionati e un paio di vedove alle quali tutti si rivolgevano facendo precedere al nome di battesimo il suffisso “Magna” (Zia), a significare che eravamo tutti un pochino parenti. Ognuno in estate aveva qualche nipote al quale badare.
I miei Nonni di nipoti ne avevano tre (il sottoscritto e due cugini), ma uno era già grande e non veniva più preso dalla vita agreste: aveva già di meglio da fare in paese. Dividevo quindi le mie giornate (nei tempi e negli spazi, 24 ore su 24) con il cugino Luca che aveva due anni meno di me. Nonostante la differenza di età a mio favore, Luca era più alto e più grosso. Lo era sempre stato, sono convinto che quando aveva 2 anni era già più alto di me che ne avevo 4. Io ero bello magrino, ma lui era decisamente un marcantonio di bambino. Fisicamente la lotta era impari. In tutte le attività e nel nostro rapporto era chiaro chi tra i due aveva le carte in regola per scassare l’altro. Potevo solo sperare nella sua pazienza e ostentare del coraggio. Con questa tecnica una volta rimediai un occhio blu, ma in molte altre occasioni me la sono cavata senza troppi guai.
Le giornate erano organizzate in tempi fissi che ogni tanto venivano modificati dal ritmo della stagione. Io e Luca ci svegliavamo quando la mungitura del mattino era terminata. I due secchi con il latte appena munto erano in cantina dove, sul tavolo di pietra, già riposavano il latte per il burro e le formaggelle fresche che colavano siero. Nel pieno della stagione i secchi erano colmi fino all’orlo, un secchio la mattina e uno la sera per due mucche fanno circa 45 litri di latte al giorno.



Mungitura

Tre o quattro litri venivano venduti freschi dopo la mungitura della sera (dal produttore al consumatore in tempo reale). Il resto veniva trasformato fino all’ultima goccia. Per quanto riguardava noi bambini, i nostri compiti erano precisi: aiutavamo a pascolare le mucche cercando di entrare in confidenza con quei bestioni dagli occhi impenetrabili. Andavamo di corsa a prendere le uova appena sparate nel cesto di paglia dalle rosse galline (con le quali invece non si cercava un contatto amichevole). Assistevamo attenti alle varie operazioni che i Nonni effettuavano con i bovini nella stalla: il fieno nella greppia, la “brusca” passata con amorevole energia sulle natiche e sulle cosce delle docili cornute, la preparazione per la mungitura con il grembiule e il foulard in testa, il miracolo quotidiano del liquido che sprizza dalle mammelle e tamburella il fondo del secchio a ritmo preciso, l’odore del latte che si spande a mano a mano che il secchio si riempie coperto da una schiuma di bollicine bianche.
Il ritmo della settimana era organizzato in funzione del giovedì, il giorno nel quale il Nonno scendeva in paese a fare la spesa e a consegnare il burro e qualche formaggio al negozio di mio padrino (il papà di Luca). Questo significava che il giorno prima del “viaggio” era quello dedicato al burro. Realizzazione e confezione il mattino del mercoledì. La logistica dell’operazione era molto semplice: se il tempo era bello, si piazzava la “macchina del burro” (burera) all’aria aperta, sul battuto di pietre di fronte alla casa. Così, sotto gli occhi di tutti, sfruttando la forza motrice dei nipoti, la magica trasformazione della panna in burro avveniva dopo un’oretta di regolare sbattimento. La burera era di quelle a manovella. Una botte di legno da 20 litri con la manovella che muoveva un meccanismo interno tipo “pale di chiatta del Mississipi”. Il tutto sostenuto da un trespolo a doppia X simile a quelli che si usano per tagliare la legna. Anche fatta l’abitudine, era eccitante vedere che, dopo un po’ di voga modello Oxford e Cambridge, il liquido inserito dallo sportello superiore ispessiva fino a separare le molecole gialle del burro. Il prodotto ottenuto veniva estratto col cucchiaio e (dopo essere stato separato per peso) veniva passato a nonno Renato che era l’artista al quale competeva la forma finale. Le porzioni (una ventina da 2 etti e tre o quattro da mezzo chilo) venivano abbozzate in forma allungata e, dopo essere state fatte saltellare con maestria in una bacinella di metallo laccato di bianco, assumevano la tipica forma a fuso. Come dei piccoli dirigibili di colesterolo dal profumo di fiori di montagna. Tutti i “panetti”, a parte quello del nostro fabbisogno settimanale, venivano poi confezionati nella tipica carta per alimenti stampata di rosso, le cui pieghe di chiusura alle estremità venivano bloccate da due piccoli rivetti. Il grosso era fatto, il mattino dopo tutto ciò che era da consegnare veniva sistemato in uno scatolone sul sedile posteriore della 600 e, tre ore più tardi, la grossa scatola di cartone tornava su piena di provviste. La più attesa di tutte era il pane fresco. Non che le “miche” di una settimana fossero cattive, ma un po’ di morbida mollica per un ragazzino di 11 anni era sicuramente un piacere del palato.
Tra fine Giugno e Luglio veniva il tempo del fieno. Appena l’istinto montanaro individuava quelle che oggi sappiamo essere le caratteristiche tipiche della presenza sull’Europa dell’Anticiclone delle Azzorre, si radunavano gli attrezzi e la truppa di famiglia partiva verso i pascoli destinati al taglio. Ovviamente i terreni scelti erano i più vicini alla casa, giacchè il trasporto del fieno avveniva a dorso di uomo. Con il fieno, il nonno mostrava il meglio della sua abilità di contadino di montagna. Con le mucche era bravo (ubbidivano alle sue parole come cagnolini addestrati), a mungere era meglio nonna ‘Mabilina, ma con la falce Renato era un vero campione. Affilava la lama con la pietra bagnata e, con una coreografia di movimenti semicircolari, accorciava a quattro dita i lunghi fili di erba fiorita con la delicatezza di chi non vuole far male. Il sibilo della lama tagliente era sincronizzato ai respiri regolari, come in un esercizio di arte orientale, dove la precisione del colpo e la concentrazione del corpo sono i segni del perfetto equilibrio. I miei tentativi di emularlo non erano affatto soddisfacenti. Intanto per me l’attrezzo era troppo grosso, inoltre anni di educazione che mi avevano insegnato a stare alla larga dagli oggetti taglienti, mi irrigidivano nel gesto atletico. In ogni caso anche i cinesi imparano il Thai Chi mica in cinque minuti….
Se il tempo era quello giusto, dopo 5 o 6 ore il fieno tagliato poteva essere rivoltato con il tridente. Il giorno dopo veniva radunato a colpi di rastrello in lunghe file parallele dette “qualere” e infine (dopo altre 24 ore) si poteva iniziare il trasporto al fienile.


All'epoca le foto di famiglia si facevano anche così...da duri!
 
Il trasporto era un esercizio epico. Il fisico robusto del Nonno veniva messo a dura prova. Si adagiava una bella quantità di fieno sul “fiorè”, un quadrato di juta con 4 pezzi di corda di canapa assicurati agli angoli. Si bloccava l’enorme mucchio di erba secca con le corde, lo si alzava in verticale e, per mezzo di un’ulteriore corda che faceva tutto il giro, veniva in qualche modo sistemato sulla testa di nonno Renato. Non so se si è capito l’effetto finale, ma era come vedere un covone di 2 metri cubi muoversi lento nei prati, mosso da due piccole zampette dal passo incerto. Con gesti misurati il nonno-covone arrivava al fienile dove lo attendeva l’ultima difficile prova da superare. Il fienile era infatti al primo piano e per portare su il fieno, si saliva una scala a pioli opportunamente modificata in modo che l’uscita sulla terrazza fossa agevole. Un piolo dopo l’altro, attento a non uscire dal baricentro, il Nonno saliva calmo calmo e, quando finalmente posava i piedi sul piano orizzontale, il sospiro di sollievo era collettivo. Un giro dopo l’altro il fienile si riempiva e quando tutto il processo era terminato si aveva ben ragione di sentirsi in festa. A dare un aspetto esteticamente perfetto a questo sentimento ci pensavano le lucciole. Dopo il tramonto centinaia di lucine intermittenti si accendevano nei pascoli tagliati di fresco. Come la ciliegia sulla torta, erano il segno di un lavoro portato a termine felicemente con successo. Me li godevo quei momenti, anche perché di lì a qualche giorno la 600 bianca mi avrebbe riportato alla normale vita di pianura.
Sono passati più di 30 anni da quei giorni, molto è cambiato. I Nonni non ci sono più, “Ninu” non c’è più, tutti quelli che erano nonni non ci sono più e quasi tutti i nipoti sono diventati dei genitori. Sono arrivati la corrente elettrica e l’asfalto a rendere la vita più comoda e, adesso che tutto è più facile, sono in pochi ad avere il tempo e la voglia per stare lassù. Belle case quasi sempre vuote e chiuse. Per fortuna animali al pascolo ce ne sono ancora. Franco, il figlio di “Ninu” ha una stalla nuova e la sua perizia e cura del territorio continuano a mantenere l’”effetto Trentino”.
Mi chiedo spesso cosa mi è rimasto di quei giorni ormai lontani e mi accorgo, con soddisfazione, che la spugna della mia anima ha trattenuto tutto quello che aveva assorbito in quei momenti speciali e spensierati: l’amore per il posto, per la montagna, per le cose semplici, per gli animali, per il legno e per la pietra. La capacità di distinguere il necessario dal superfluo. L’istinto che ti fa vedere un capriolo o trovare un quadrifoglio. Il “Pied Montagnard” di chi sa muoversi con sicurezza anche nei posti impervi. L’eterno massimo rispetto per chi, dopo una vita di sacrifici, mi ha lasciato in eredità un pezzo di paradiso terrestre. Avere quel posto segnato sulla carta di identità alla voce “indirizzo” è il mio sogno più segreto e anche quello più palese. Intanto continuo a sentire lì le mie radici e, piano piano, provo a spingerle più profonde, poi nella vita …chissà…


Pascolo...









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